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te di sezione, Corrado, che in un attimo mi recapita quanto necessario
          per le incombenze. I piatti di metallo, la scodella per il latte e le posate mi
          sono già state fornite dall’Amministrazione insieme alle lenzuola e alla co-
          perta, la notte prima, ma per il sapone ed altre necessità si deve fare ri-
          ferimento al lavorante di sezione. Entro nel locale delle docce e mi pare
          di entrare in un bagno turco: ci sono solo due tipi che si stanno lavando
          e non si vede un tubo per il vapore che staziona fino ad un metro dal pa-
          vimento. Comunque faccio la doccia e, finita la strigliata, spalanco le fi-
          nestre del locale per fare uscire il vapore di troppo. Sento alcuni brontolii
          in una lingua che suona straniera: è un tunisino che smoccola per la mia
          decisione d’aprire le finestre. Non mi sembra il caso di stare ad ascoltar-
          lo ma l’altro, un marocchino, dà ragione al suo amico spiegandomi in un
          italiano stentato che quelle cose non si fanno, però dato che sono appe-
          na arrivato, per questa volta “lasceranno correre”. Capisco subito che lì
          dentro è difficile convivere.
             Una stanza che si conosce subito è la “sala avvocati”. Entro cinque
          giorni dall’entrata nel collegio statale, un magistrato è obbligato a venire
          a sentire cos’hai da dire. È una pura formalità, intendiamoci, ma gli tocca
          farla e pertanto entro i fatidici cinque giorni ti senti chiamare e dire dall’a-
          gente di turno: “sala avvocati”. Scendi al piano terra e, dopo aver spie-
          gato ad ogni cancello (ce ne sono sette per arrivare a destinazione) dove
          devi andare e perché (e atteso magari anche qualche telefonata di con-
          trollo), entri in questa stanza linda. Il GIP (Giudice Indagini Preliminari) è
          insieme ai tre poliziotti che hanno fatto le loro “indagini” e lì trovo anche il
          mio avvocato. Qualunque cosa si dica, l’idea che il magistrato si è già fat-
          ta nella sua testa regna sovrana e ben poco potrai fare per fargliela cam-
          biare. Una di queste poche cose è la collaborazione. M’hanno spiegato,
          senza troppi giri di parole, che una lista di clienti, favoreggiatori e fornitori,
          meglio se con aggiunta di complici a tutti i livelli, potrebbe servire a met-
          tere il giudice di buon umore nei miei confronti. Io però chiudo il primo in-
          terrogatorio con una semplice frase: “mi avvalgo della facoltà di non ri-
          spondere” alla quale fa subito eco la battuta del magistrato che, rivolto al
          mio avvocato gli dice: “non si provi a chiedere scarcerazioni o arresti do-
          miciliari!” E si alza e se ne va.
             La formalità è conclusa. Saluto il mio avvocato e, ripassando per i
          sette cancelli, ritorno nella mia cella. La curiosità su come sia andato il
          mio interrogatorio è sulla faccia di tutti, ma nessuno apre bocca. Io sono
          abbastanza tranquillo: l’aver trovato due panetti di fumo sulla macchi-

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